gennaio 2022 - EVENTI E NEWS

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venerdì 21 gennaio 2022

gennaio 21, 2022 0

 

Perché dimentichiamo alcune cose (ed altre no)

Secondo i ricercatori, l’oblio non è legato alla perdita della memoria, ma a un processo che ci induce ad avere comportamenti più flessibili e una migliore capacità decisionale

Per ogni avvenimento che viviamo nella nostra vita, il cervello crea e registra due ricordi distinti. Il primo serve per rievocare quell’evento nell’immediato, l’altro per rievocarlo a lungo termine. Quindi, per ogni evento vissuto, il cervello crea una traccia che viene definita “ricordo a breve a termine” che svanisce nel giro di pochi giorni, e una seconda traccia definita “ricordo a lungo termine” che può essere rievocata in qualsiasi momento. Sappiamo, quindi, che la memoria a lungo termine si occupa di immagazzinare, amministrare, e richiamare informazioni, e non ha limiti di capienza, ma ancora non è chiaro come i ricordi vengano recuperati. Pare che il recupero avvenga attraverso la riattivazione di uno schema unico di cellule nervose creato durante l’immagazzinamento.

Ad approfondire il tema del ricordo, nell’ambito del Programma Child & Brain Development, sono stati due ricercatori, il dott. Tomás Ryan, professore associato presso la Scuola di Biochimica e Immunologia e dal Trinity College Institute of Neuroscience del Trinity College di Dublino, e il dott. Paul Frankland, professore presso il Dipartimento di Psicologia dell'Università di Toronto, entrambi membri dell'organizzazione di ricerca globale canadese CIFAR. I due scienziati hanno elaborato una nuova teoria, pubblicata su Nature Review Neuroscience, secondo la quale la capacità di dimenticare, l’oblio, non è un’abilità negativa, ma rappresenta una forma di apprendimento.

La memoria e le cellule engram

Secondo gli scienziati, i ricordi vengono immagazzinati in insiemi di neuroni, chiamati “cellule engram” (si tratta della memoria potenzialmente recuperabile nel cervello). Queste cellule si dividono in accessibili (vengono riattivate da segnali di richiamo naturale) o inaccessibili (non vengono riattivate). L’oblio, ovvero la dimenticanza più o meno duratura di un ricordo, si verificherebbe quando queste cellule engram non possono essere riattivate (ricordi inaccessibili).

“I ricordi stessi sono ancora lì - dicono i ricercatori -, ma se gli insiemi specifici non possono essere attivati, non possono essere richiamati. E' come se le memorie fossero conservate in una cassaforte, ma non si ricorda il codice per sbloccarla”.

La riattivazione dei ricordi

Cosa determina la riattivazione di un ricordo? La capacità di riattivarlo o meno dipenderebbe, secondo la nuova teoria, dai feedback ambientali e dalla loro prevedibilità. Si tratterebbe di una caratteristica funzionale del cervello che gli consentirebbe di interagire dinamicamente con l’ambiente esterno e adeguarsi velocemente ad esso. In un mondo che cambia continuamente, dimenticare alcuni ricordi può risultare molto utile poiché ci porta ad avere comportamenti meno rigidi e più flessibili, e, quindi, un migliore processo decisionale. Se i ricordi sono stati acquisiti in circostanze che non sono rilevanti per il contesto ambientale che ci circonda, dimenticarli può essere una cosa positiva che migliora la nostra vita.

“Tutte le forme di oblio - hanno detto i ricercatori - coinvolgano il rimodellamento del circuito che modifica lo stato delle cellule engram da accessibile (possono essere riattivate da segnali di richiamo naturale) a inaccessibile (non possono essere riattivate). In molti casi i tassi di dimenticanza sono modulati dalle condizioni ambientali, e pertanto crediamo che la dimenticanza sia una forma di neuroplasticità che altera l'accessibilità delle cellule engram in funzione del contesto ambientale del momento”.

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L’oblio è legato a un accesso alla memoria, non a una sua perdita

Sino ad ora abbiamo sempre considerato l'oblio come una perdita di informazioni, ma numerose e recenti ricerche suggeriscono che, almeno in alcuni casi, l'oblio è dovuto a un accesso alterato alla memoria piuttosto che alla perdita di essa. “Secondo la nostra nuova teoria - ha dichiarato il dott. Ryan - l'oblio è dovuto al rimodellamento del circuito che trasforma lo stato delle cellule engram da accessibile a a inaccessibile. E, poiché il tasso di oblio è influenzato dalle condizioni ambientali, crediamo che dimenticare sia in realtà una forma di apprendimento che altera l'accessibilità della memoria in linea con il contesto ambientale e con quanto questo sia prevedibile”.

Quando è la malattia a generare l’oblio

Ci sono molti modi in cui il nostro cervello dimentica, ma tutti agiscono per rendere l'engram - l'incarnazione fisica di un ricordo - più difficile da accedere. A proposito dell'oblio patologico, come conseguenza di una malattia, il dottor Ryan e il dottor Frankland hanno aggiunto che "l’'oblio naturale’, di cui abbiamo parlato sino ad ora, è reversibile in determinate circostanze e che negli stati patologici, come ad esempio nelle persone che hanno il morbo di Alzheimer, questi meccanismi naturali del ricordo siano dirottati, con una conseguente ridotta accessibilità delle cellule engram e perdita di memoria”.

gennaio 21, 2022 0

 

Vaccini Covid: il fumo accelera la caduta degli anticorpi

I risultati di uno studio tutto italiano, condotto da un team di ricercatori di diverse università e centri di ricerca italiani e spagnoli, sotto la supervisione degli esperti del CoEHAR

La protezione offerta dai vaccini contro il Covid-19 si basa sulla risposta anticorpale indotta dai diversi tipi di vaccini Covid-19 a disposizione. Il livello di anticorpi varia da persona a parsone e, come nel caso di altri vaccini, diversi fattori – alcuni dei quali modificabili – possono contribuire a questa variabilità.  Un’indagine epidemiologica, coordinata dal Centro di Ricerca sulla Sanità Pubblica (CESP) dell’Università Bicocca di Milano in stretta collaborazione con degli esperti del CoEHAR, ha studiato l’associazione tra lo stato di fumatore e le variazioni degli anticorpi, ossia le immunoglobuline G, IgG, prodotte dal vaccino e dirette contro Sars-Cov-2.

Come agisce il fumo sugli anticorpi

Lo studio è stato condotto su 162 operatori sanitari che, su base volontaria, si sono sottoposti a test sierologici mensili per valute l’andamento del livello di anticorpi nei sei mesi successivi alla vaccinazione con vaccino a mRNA Pfizer. Un terzo gruppo di partecipanti fumava regolarmente nel periodo di studio: in questo gruppo, a 60 giorni dalla vaccinazione, si è riscontrata una diminuzione del livello di anticorpi più rapida che nei non fumatori. 

«I vaccini si sono dimostrati un’arma efficace contro il Covid-19. Sappiamo che la risposta immunologica è influenzata dai diversi fattori, come una precedente infezione da SARS-CoV-2, ma anche i nostri comportamenti e stili di vita. Abbiamo bisogno di ulteriori conferme dalla ricerca, ma questo studio suggerisce che il fumo contribuisce a indebolire la risposta delle immunoglobuline e con possibili implicazioni sull’efficacia stessa della vaccinazione. E questo può riguardare anche gli altri vaccini oltre a quelli anti-Covid-19» spiega Pietro Ferrara, medico epidemiologo del CESP di Bicocca.

Il Prof. Riccardo Polosa, Fondatore del CoEHAR, guarda alle implicazioni dirette ai fumatori: «La ricerca scientifica in questo particolare periodo storico sta facendo sforzi enormi per trovare le risposte più efficaci per combattere il Covid-19, ma non possiamo dimenticare che ci sono tantissime altre malattie che portano alla morte e che dobbiamo considerare di risolvere i fattori di rischio modificabili, attraverso la corretta prevenzione o il passaggio a soluzioni meno dannose. Tra questi c’è l’abitudine al fumo. I nostri ricercatori stanno valutando quanto il fumo incida sulla progressione del Covid-19 e sull’impatto che Sars-Cov-2 ha sui soggetti fumatori: è evidente che si tratta di una relazione significativa che non possiamo sottovalutare».

Lo studio

Lo studio è parte di un più ampio progetto di ricerca, denominato VASCO (Monitoraggio della risposta al Vaccino Anti-SARS-CoV-2/COVID-19 in operatori sanitari) e coordinato dal CESP dell’Università Bicocca diretto dal Prof. Lorenzo Mantovani. L’obiettivo è stato quello di valutare la risposta al vaccino Pfizer in un campione generale di oltre 400 soggetti, confermando sicurezza ed efficacia della vaccinazione anti-COVID-19. 

L’ultima pubblicazione è la terza di una serie di ricerche parte del progetto VASCO, frutto della collaborazione attiva con il CoEHAR. Nello specifico, questa analisi si è concentrata su 162 soggetti con un’età media di 43 anni e, dei quali, 28 avevano avuto precedente infezione da SARS-CoV-2, in cui sono stati valutati il livello di anticorpi indotti dal vaccino e il suo andamento nel breve-medio termine dopo la vaccinazione. Tutti i soggetti erano stati precedentemente vaccinati con vaccino a mRNA BNT162b2 di Pfizer-BioNTech. 

Per esaminare la risposta anticorpale al vaccino, i volontari sono stati sottoposti a test sierologici seriati per valutare il livello degli anticorpi e come questi cambiano nel tempo. I risultati sono stati analizzati in funzione di età, sesso e precedente infezione da Covid-19. Successivamente, i ricercatori si sono chiesti se il fumo avesse potuto giocare un ruolo nel tipo e nella durata della risposta anticorpale, analizzando i dati mensili degli anticorpi. Le analisi sierologiche hanno dimostrato che il loro livello inizia a diminuire già dal secondo mese dopo la vaccinazione in maniera molto più rapida dei fumatori. 

Per confermare e rafforzare questa scoperta, gli studiosi sono attualmente impegnati a condurre una revisione della letteratura disponibile sulla risposta ai vaccini contro il Covid-19. I ricercatori del CoEHAR sono convinti che i risultati saranno indispensabili per aumentare la conoscenza sui meccanismi di risposta alla vaccinazione Covid-19, ma soprattutto per sensibilizzare i fumatori a smettere.

gennaio 21, 2022 0

 

Il covid ci sta trasformando in una società di ipocondriaci". L'appello degli psichiatri contro la psicosi

"Basta riferimenti a peste, Spagnola e guerra mondiale: aumentano ansia e angoscia e rischiano di rendere più ipocondriache le persone più sensibili", spiegano dalla Società Italiana di Psichiatria. E ancora: "Fondamentale anche ridurre i controlli ingiusitificati"

 “Tanto la prenderemo tutti”: questo è il refrain che sentiamo ripetere tra amici, parenti ma anche sconosciuti in fila davanti alle farmacie. “Dire che il Covid ci sta trasformando in una società di malati non è vero ma di ipocondriaci è un pericolo concreto. Il fatto che ogni giorno possiamo scontrarci con un problema sanitario che ci riguarda personalmente o indirettamente, è ormai presente nel vissuto di tutti noi e rischia di alterare e condizionare la percezione della malattia, interpretando in modo esagerato sensazioni di pericolo e malessere, con importanti ripercussioni dal punto di vista psichico” così Massimo di Giannantonio, ed Enrico Zanalda, co-presidenti della Società Italiana di Psichiatria (SIP), mette in guardia sull’impatto che la quarta ondata da variante Omicron rischia di avere sulla salute psicofisica degli italiani.

“Si sta ponendo un gigantesco problema di vissuti” – precisa di Giannantonio – “Siamo tutti sottoposti a un continuo stress generato dal pensiero del rapporto con la malattia, con se stessi e con gli altri, come potenziali veicoli di infezione e contagi. Ormai gli italiani sono chiamati tutti a farsi un’autotesting sul proprio corpo e basta uno starnuto a insinuare il dubbio di essere contagiati. Tutto questo fa crescere la paura di ammalarsi che può diventare un elemento fuori controllo e rendere le persone eccessivamente vulnerabili alla percezione del rischio potenziale, anche a fronte di situazioni reali, dove il rischio non c’è”.

Per combattere l’ipocondria unitamente al percorso di cura specialistico nei casi più gravi, è necessario adottare alcune strategie utili nella quotidianità “Alcuni accorgimenti possono concorrere a disinnescare l’escalation nelle manifestazioni compulsive dei sintoni e a ridimensionarne il peso” – sottolineano gli esperti – “Basta fare riferimento ai grandi fenomeni del passato come la peste, la Spagnola o la prima guerra mondiale: questo modo di parlare agli italiani rischia di rendere le persone più sensibili invece di responsabilizzare e rendere più attivi i comportamenti che possono limitare la diffusione del virus. Fondamentale anche evitare di parlare solo di malattie e timori, perché ciò non fa altro che alimentare l’ansia, e ridurre i controlli diagnostici superflui e ingiustificati”.

gennaio 21, 2022 0

 

Masticare lentamente aiuta a perdere peso: cosa c'è da sapere

Secondo la ricerca, gli stimoli orali, legati alla durata dell'assaggio dei cibi e della masticazione, aumentano il dispendio energetico aiutando a perdere peso o a mantenerne il controllo

La masticazione gioca un ruolo fondamentale nella digestione e nell’assimilazione dei nutrienti. A parità di qualità e quantità degli alimenti, il modo in cui mangiamo influenza sia il senso di sazietà che la soddisfazione rispetto al pasto, prevenendo l'obesità e l'aumento di peso. Come dimostrano numerosi studi scientifici, questo avviene perché il processo di masticazione aumenta il dispendio energetico associato al metabolismo del cibo e la motilità intestinale, generando maggiore calore nel corpo (processo noto come “termogenesi indotta dalla dieta” o DIT). Tuttavia non è ancora chiaro in che modo questo processo (DIT) sia condizionato dalla masticazione.

 A indagare il nesso causale tra i due è stato un recente studio condotto dalla dott.ssa Yuka Hamada e dalla professoressa Naoyuki Hayashi dell'Università di Waseda, in Giappone. Secondo la ricerca, pubblicata sulla rivista Scientific Reports, gli stimoli orali, legati alla durata dell'assaggio degli alimenti e alla durata della masticazione, svolgono un ruolo positivo nell'aumentare il dispendio energetico dopo l'assunzione di cibo, aiutando a perdere peso o a gestirne il controllo.

Cos'è la termogenesi indotta dalla dieta 

Quando mastichiamo, ingeriamo e digeriamo un alimento, consumiamo un certo numero di calorie. Tale processo è noto come "termogenesi indotta dalla dieta” (DIT o effetto termico del consumo del cibo) e incide per una certa percentuale sulle calorie totali che il nostro organismo spende ogni giorno (mediamente il 10%). Se la DIT porta a un dispendio energetico al di sopra del metabolismo basale (la quantità di energia impiegata dal soggetto sveglio, ma in uno stato di totale rilassamento fisico e psichico, a digiuno da almeno 12 ore) è possibile prevenire l’aumento di peso. Per questo motivo, spesso, alle persone in sovrappeso viene consigliato di frazionare la propria razione calorica giornaliera in tanti piccoli pasti.

La masticazione influisce su digestione e circolazione sanguigna

In studi precedenti il team di ricerca dell'Università di Waseda aveva scoperto che una masticazione lenta e approfondita non solo aumentava la DIT, ma migliorava anche la circolazione sanguigna nella regione splancnica dell’addome (organi vitali dell’addome). Sebbene questi studi abbiano collegato la DIT indotta dalla masticazione con una migliore digestione e una maggiore attività correlata all'assorbimento degli alimenti, alcune domande rimanevano ancora prive di risposta.

"Non eravamo sicuri - ha spiegato la prof.ssa Hayashi - se la dimensione del bolo alimentare entrato nel tratto digestivo contribuisse all'aumento della DIT dopo la deglutizione. Ma, avevamo notato che gli stimoli orali, generati durante la masticazione prolungata del cibo, svolgevano un ruolo nell'aumento della DIT”.

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Lo studio

Per approfondire il nesso di causalità, il team di ricerca ha avviato un nuovo studio che indagasse meglio gli effetti della masticazione sulla DIT utilizzando, questa volta, il cibo liquido. La ricerca è stata strutturata in tre prove condotte in giorni diversi su 11 maschi sani di peso normale. Nella prova di controllo, i ricercatori hanno chiesto ai volontari di deglutire 20 ml di cibo liquido ogni 30 secondi. Nella seconda prova, hanno chiesto loro di tenere in bocca lo stesso alimento per 30 secondi senza masticare, consentendo così un assaggio prolungato prima della deglutizione. Infine, nella terza prova hanno studiato l'effetto sia della masticazione che dell'assaggio. In tutte e tre le prove i volontari hanno masticato il cibo da 20 ml per 30 secondi ad una frequenza di una volta al secondo e poi lo hanno ingoiato. 

I ricercatori hanno monitorato, nel corso delle tre prove, le variabili come fame e pienezza, scambio di gas, DIT e circolazione splancnica (trasporta il sangue venoso al fegato dai segmenti del tubo digerente posti sotto il diaframma (dallo stomaco all’ano), dalla milza e dal pancreas) misurandole prima e dopo il consumo del cibo liquido.

I risultati

Analizzando i risultati, i ricercatori non hanno osservato alcuna differenza nei punteggi delle tre prove riguardo il senso di fame e il senso di pienezza. Ma hanno riscontrato un aumento della DIT (o della produzione di energia) dopo ogni consumo del pasto, ogni stimolazione del gusto (assaggio) e ogni masticazione. Inoltre, hanno osservato che anche lo scambio di gas e la circolazione splancnica aumentavano con la durata della stimolazione del gusto e della masticazione, così come la circolazione splancnica.

“Ciò significa - ha spiegato Hayashi - che l’aumento della DIT dipenda dagli stimoli orali, cioè dalla durata dell'assaggio del cibo in bocca e dalla durata della masticazione. Quindi ipotizziamo che il sovrappeso e l'obesità possano essere evitati masticando e assaggiando attraverso l'aumento della DIT".

Masticare bene aumenta il dispendio energetico

Lo studio ha evidenziato come masticare bene e lentamente aumenta il dispendio energetico, aiutando a prevenire l'obesità e la sindrome metabolica. "Sebbene il dispendio energetico relativo a ogni pasto sia piccola, - ha concluso Hayashi - l’effetto cumulativo raccolto durante la giornata con più pasti, assunti ogni giorno e per 365 giorni all'anno, è sostanziale”. Un'alimentazione lenta e una masticazione approfondita, quindi, potrebbero rientrare tra le raccomandazioni per la gestione del peso.

Perdere peso con gli alimenti a calorie negative

Esistono in natura alcuni alimenti che fanno consumare, durante la masticazione, più calorie di quelle che forniscono mangiandoli. Questi alimenti vengono definiti “a calorie negative” perché - come spiegano gli esperti di nutrizione - quando li consumiamo, la masticazione e il processo digestivo degli stessi porta a un maggiore dispendio energetico ("termogenesi indotta dalla dieta") rispetto alle calorie fornite dell’alimento stesso. Quindi, se inseriti all’interno di una dieta varia ed equilibrata, aiutano a perdere peso o a mantenerne un controllo nel tempo”. Tra i principali cibi a calorie negative ci sono: i cetrioli, i finocchi, i ravanelli, i funghi, la lattuga, le zucchine, il pompelmo, le mele e naturalmente l’acqua, alimento a calorie negative per eccellenza.

gennaio 21, 2022 0

 

Gli uomini che vengono lasciati rischiano di più: quali sono le malattie correlate

Secondo uno studio, più rotture accumulate e troppi anni vissuti da soli genera un'infiammazione cronica negli uomini, ma non nelle donne, che aumenta il rischio di malattie e di morte

La fine di una relazione è sempre un’esperienze dolorosa, un evento traumatico che non genera solo una sofferenza psichica, ma può impattare fortemente anche sulla salute, soprattutto degli uomini. A dirlo è la Scienza. Diversi studi hanno, infatti, dimostrato come il divorzio aumenti la probabilità di un attacco cardiaco, in particolare fra quei soggetti che hanno alla spalle più separazioni.

A confermare tale tendenza un recente studio, pubblicato sul The Journal of Epidemiology&Community Health, secondo cui gli uomini di mezza età che sono stati lasciati più volte o hanno vissuto da soli per molti anni hanno livelli più elevati di infiammazione cronica dell’organismo. I ricercatori credono che questa condizione, se protratta nel tempo, possa aumentare il rischio di alcune malattie e di morte.

Lo studio

Al fine di indagare l'impatto che più relazioni fallite e più anni vissuti da soli possono avere sulla salute, i ricercatori hanno analizzato informazioni e campioni biologici relativi a 4.835 individui danesi (3.170 uomini e 1.442 donne) di età compresa tra 48 e 62 anni tratti dalla Copenhagen Aging and Midlife Biobank (CAMB). I dati considerati facevano riferimento a più fattori: il livello di istruzione, la storia individuale di divorzi e rotture coi partner, gli anni trascorri da soli tra il 1986 e il 2011 (in ventisei anni di vita), e i livelli nel sangue di due biomarcatori – interleuchina 6 (IL-6) e proteina C-reattiva (CRP) che indicano la presenza di un’infiammazione nell’organismo.

Che funzione hanno l'Interluchina 6 e la proteina C-reattiva

L’interluchina 6 (IL-6) viene prodotta dal sistema immunitario ed è implicata nella regolazione della risposta immunitaria. E’ parte dell’ampio gruppo di molecole chiamate "citochine pro-infiammatorie", che  svolgono un ruolo centrale nella regolazione dell’infiammazione. Concentrazioni eccessive nel sangue di questa proteina sono predittive di patologie infiammatorie, infezioni, disordini autoimmuni, malattie cardiovascolari e alcuni tipi di cancro. Durante uno stato infiammatorio questa proteina, a sua volta, stimola la produzione epatica di un altro importante marker d'infiammazione, la proteina C-reattiva (proteina di fase acuta), che indica l'entità e la gravità di questa infiammazione (più la concentrazione nel sangue di questa proteina risulterà alta, maggiore sarà l'infiammazione presente nell’organismo).

Gli uomini lasciati hanno livelli di infiammazione più elevati

Analizzando i dati, i ricercatori hanno riscontrato un aumento del 17% sia dei livelli di IL-6 sia dei livelli della CRP negli uomini che avevano subito due o più rotture rispetto a quelli che non erano mai stati lasciati dal partner. Allo stesso modo, gli uomini che avevano vissuto da soli per sette o poù anni  mostravano livelli di PCR più alti dell'11% e livelli di IL-6 più alti del 12% rispetto a coloro che avevano trascorso meno di un anno da soli.

“L’infiammazione cronica riscontrata - hanno dichiarato gli autori dello studio - è moderata, ma è significativa e rilevante dal punto di vista clinico, e molto probabilmente è un fattore che aumenta il rischio di diverse malattie e di mortalità".

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Nelle donne non è stato riscontrato lo stesso aumento

I ricercatori non hanno osservato la stessa correlazione nelle donne. La fine di più relazioni o una vita vissuta per più anni in solitaria, sembra non avere conseguenze sui livelli di infiammazione nel genere femminile. Secondo gli autori la discrepanza evidenziata dallo studio è legata al fatto che gli uomini tendono a esternare il loro comportamento in seguito alla rottura con un partner, ad esempio bevendo, mentre le donne sono più inclini a interiorizzare e manifestare sintomi depressivi. Due reazioni che potrebbero influenzare in modo diverso i livelli di infiammazione dell'organismo.

"Un numero limitato di separazioni e di anni vissuti da soli non costituiscono di per sé un rischio di problemi di salute, - chiariscono i ricercatori - ma lo studio mostra che la combinazione di molti anni di solitudine e di numerose rotture influisce sui livelli di PCR e IL-6”.

I livelli infiammatori sono più alti negli uomini con istruzione elevata 

I ricercatori hanno, infine, messo in relazione i risultati dello studio coi livelli di istruzione dei soggetti reclutati, e scoperto che gli uomini con più anni di scolarizzazione sono più suscettibili all'aumento dell'infiammazione. Tra gli uomini con più rotture accumulate, quelli con livelli di istruzione più elevati hanno mostrato un aumento maggiore sia di IL-6 che di CRP. Allo stesso modo, i livelli di IL-6 erano più elevati sono stati riscontrati negli uomini maggiormente istruiti che avevano trascorso almeno sette anni da soli, mentre maggiori livelli di PCR sono stati osservati negli uomini con alti livelli di istruzione e con due e sei anni di vita vissuta senza partner.

gennaio 21, 2022 0

 

I fattori di rischio per l'ictus

I consigli dell'associazione A.L.I.Ce. Italia ODV, che da anni si occupa di sensibilizzare la popolazione su prevenzione e recupero post malattia

Il Presidente del CONI Giovanni Malagò ha raccontato in questi giorni di essere stato a rischio ictus e di averlo scoperto in occasione di un semplice intervento agli occhi, quando i medici gli hanno diagnosticato la fibrillazione atriale (FA), disturbo cronico del ritmo cardiaco più frequente che colpisce nel nostro Paese circa 1 milione di persone. Le caratteristiche della FA variano da individuo a individuo: alcune persone possono avere sintomi molto lievi, altre non manifestano alcun sintomo e l’aritmia, come nel caso del Presidente Malagò, viene scoperta occasionalmente durante una visita medica eseguita per altri motivi.

“La FA è la causa di circa il 20% degli ictus ischemici - dichiara il Prof. Danilo Toni, Direttore Unità Trattamento Neurovascolare Policlinico Umberto I di Roma e Presidente del Comitato Tecnico Scientifico di A.L.I.Ce. Italia Odv, Associazione per la Lotta all’Ictus Cerebrale. Chi è affetto da FA vede aumentare di 4 volte il rischio di ictus tromboembolico, che risulta generalmente molto grave e invalidante: l’embolo che parte dal cuore chiude arterie di calibro maggiore, con un conseguente danno ischemico che interessa porzioni più estese di cervello; questa forma di ictus determina una mortalità del 30% entro i primi tre mesi dall’evento e lascia esiti invalidanti in almeno il 50% dei pazienti1-2. È quindi estremamente importante ‘intercettare’ il più rapidamente possibile i pazienti con FA e stabilire una terapia anticoagulante per ridurre il rischio di ictus, una volta effettuata la diagnosi”.

A.L.I.Ce. Italia ODV, che da anni si occupa di informare e sensibilizzare la popolazione non solo sulla prevenzione di questa patologia ma anche sul post ictus e, quindi, sulle conseguenze che questo comporta, coglie l’occasione per ricordare quelli che sono i principali fattori di rischio modificabili per l’ictus cerebrale:

  • IPERTENSIONE ARTERIOSA: è con la FA il principale fattore di rischio per l’ictus; si parla di ipertensione quando i valori della pressione si mantengono costantemente sopra i 140 di massima e gli 85 di minima
  •  DIABETE MELLITO: si parla di diabete mellito quando i valori degli zuccheri nel sangue (glicemia a digiuno) superano i 126 mg/dL
  • IPERCOLESTEROLEMIA: livelli oltre la norma del colesterolo LDL (il cosiddetto colesterolo “cattivo”) e dei trigliceridi determinano l’incremento del rischio per ictus in proporzione all’aumento dei loro valori
  • FUMO DI SIGARETTA: aumenta di 2-3 volte il rischio di ictus e dipende dal numero di sigarette fumate al giorno e dal numero di anni in cui si è fumato
  • OBESITA’: favorisce l’insorgenza del diabete
  • RIDOTTA ATTIVITA’ FISICA
  • EMICRANIA
  • PILLOLA ANTICONCEZIONALE: sono a rischio le donne che la assumono e soffrono di emicrania e/o sono fumatrici
  • ABUSO DI ALCOOL: mentre una quantità moderata di vino rosso (mezzo bicchiere ai pasti) può essere un fattore protettivo, l’eccesso di alcool causa l’effetto contrario, aumentando il rischio di ictus.  

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“La nostra Associazione desidera ringraziare il Presidente Giovanni Malagò per aver raccontato la sua esperienza, che ci dà la possibilità di sensibilizzare ancora una volta la popolazione sui fattori di rischio per l’ictus cerebrale – dichiara Andrea Vianello, Presidente di A.L.I.Ce. Italia ODV. Prevenire è il modo migliore per limitare il rischio di ictus; alcuni fattori, come l’età, la familiarità e il sesso, non sono modificabili ma altri possono essere controllati adottando stili di vita più salutari: il nostro consiglio, dunque, è quello di non fumare, tenere sotto controllo il peso corporeo, limitare il consumo di alcool e praticare una costante attività fisica, oltre che monitorare con costanza la pressione arteriosa e la fibrillazione atriale”.

L’ictus cerebrale è una patologia grave e disabilitante che, nel nostro Paese, rappresenta la terza causa di morte, dopo le malattie cardiovascolari e le neoplasie. Quasi 150.000 italiani ne vengono colpiti ogni anno e la metà dei superstiti rimane con problemi di disabilità anche grave. In Italia, le persone che hanno avuto un ictus e sono sopravvissute, con esiti più o meno invalidanti, sono oggi circa 1 milione, ma il fenomeno è in crescita sia perché si registra un invecchiamento progressivo della popolazione, sia per il miglioramento delle terapie attualmente disponibili per la fase acuta che hanno notevolmente incrementato la sopravvivenza.

lunedì 17 gennaio 2022

gennaio 17, 2022 0

 

Masticare lentamente aiuta a perdere peso: cosa c'è da sapere

Secondo la ricerca, gli stimoli orali, legati alla durata dell'assaggio dei cibi e della masticazione, aumentano il dispendio energetico aiutando a perdere peso o a mantenerne il controllo

La masticazione gioca un ruolo fondamentale nella digestione e nell’assimilazione dei nutrienti. A parità di qualità e quantità degli alimenti, il modo in cui mangiamo influenza sia il senso di sazietà che la soddisfazione rispetto al pasto, prevenendo l'obesità e l'aumento di peso. Come dimostrano numerosi studi scientifici, questo avviene perché il processo di masticazione aumenta il dispendio energetico associato al metabolismo del cibo e la motilità intestinale, generando maggiore calore nel corpo (processo noto come “termogenesi indotta dalla dieta” o DIT). Tuttavia non è ancora chiaro in che modo questo processo (DIT) sia condizionato dalla masticazione.

 A indagare il nesso causale tra i due è stato un recente studio condotto dalla dott.ssa Yuka Hamada e dalla professoressa Naoyuki Hayashi dell'Università di Waseda, in Giappone. Secondo la ricerca, pubblicata sulla rivista Scientific Reports, gli stimoli orali, legati alla durata dell'assaggio degli alimenti e alla durata della masticazione, svolgono un ruolo positivo nell'aumentare il dispendio energetico dopo l'assunzione di cibo, aiutando a perdere peso o a gestirne il controllo.

Cos'è la termogenesi indotta dalla dieta 

Quando mastichiamo, ingeriamo e digeriamo un alimento, consumiamo un certo numero di calorie. Tale processo è noto come "termogenesi indotta dalla dieta” (DIT o effetto termico del consumo del cibo) e incide per una certa percentuale sulle calorie totali che il nostro organismo spende ogni giorno (mediamente il 10%). Se la DIT porta a un dispendio energetico al di sopra del metabolismo basale (la quantità di energia impiegata dal soggetto sveglio, ma in uno stato di totale rilassamento fisico e psichico, a digiuno da almeno 12 ore) è possibile prevenire l’aumento di peso. Per questo motivo, spesso, alle persone in sovrappeso viene consigliato di frazionare la propria razione calorica giornaliera in tanti piccoli pasti.

La masticazione influisce su digestione e circolazione sanguigna

In studi precedenti il team di ricerca dell'Università di Waseda aveva scoperto che una masticazione lenta e approfondita non solo aumentava la DIT, ma migliorava anche la circolazione sanguigna nella regione splancnica dell’addome (organi vitali dell’addome). Sebbene questi studi abbiano collegato la DIT indotta dalla masticazione con una migliore digestione e una maggiore attività correlata all'assorbimento degli alimenti, alcune domande rimanevano ancora prive di risposta.

"Non eravamo sicuri - ha spiegato la prof.ssa Hayashi - se la dimensione del bolo alimentare entrato nel tratto digestivo contribuisse all'aumento della DIT dopo la deglutizione. Ma, avevamo notato che gli stimoli orali, generati durante la masticazione prolungata del cibo, svolgevano un ruolo nell'aumento della DIT”.

Quanto olio d'oliva consumare al giorno per ridurre il rischio di infarto e ictus

Lo studio

Per approfondire il nesso di causalità, il team di ricerca ha avviato un nuovo studio che indagasse meglio gli effetti della masticazione sulla DIT utilizzando, questa volta, il cibo liquido. La ricerca è stata strutturata in tre prove condotte in giorni diversi su 11 maschi sani di peso normale. Nella prova di controllo, i ricercatori hanno chiesto ai volontari di deglutire 20 ml di cibo liquido ogni 30 secondi. Nella seconda prova, hanno chiesto loro di tenere in bocca lo stesso alimento per 30 secondi senza masticare, consentendo così un assaggio prolungato prima della deglutizione. Infine, nella terza prova hanno studiato l'effetto sia della masticazione che dell'assaggio. In tutte e tre le prove i volontari hanno masticato il cibo da 20 ml per 30 secondi ad una frequenza di una volta al secondo e poi lo hanno ingoiato. 

I ricercatori hanno monitorato, nel corso delle tre prove, le variabili come fame e pienezza, scambio di gas, DIT e circolazione splancnica (trasporta il sangue venoso al fegato dai segmenti del tubo digerente posti sotto il diaframma (dallo stomaco all’ano), dalla milza e dal pancreas) misurandole prima e dopo il consumo del cibo liquido.

I risultati

Analizzando i risultati, i ricercatori non hanno osservato alcuna differenza nei punteggi delle tre prove riguardo il senso di fame e il senso di pienezza. Ma hanno riscontrato un aumento della DIT (o della produzione di energia) dopo ogni consumo del pasto, ogni stimolazione del gusto (assaggio) e ogni masticazione. Inoltre, hanno osservato che anche lo scambio di gas e la circolazione splancnica aumentavano con la durata della stimolazione del gusto e della masticazione, così come la circolazione splancnica.

“Ciò significa - ha spiegato Hayashi - che l’aumento della DIT dipenda dagli stimoli orali, cioè dalla durata dell'assaggio del cibo in bocca e dalla durata della masticazione. Quindi ipotizziamo che il sovrappeso e l'obesità possano essere evitati masticando e assaggiando attraverso l'aumento della DIT".

Masticare bene aumenta il dispendio energetico

Lo studio ha evidenziato come masticare bene e lentamente aumenta il dispendio energetico, aiutando a prevenire l'obesità e la sindrome metabolica. "Sebbene il dispendio energetico relativo a ogni pasto sia piccola, - ha concluso Hayashi - l’effetto cumulativo raccolto durante la giornata con più pasti, assunti ogni giorno e per 365 giorni all'anno, è sostanziale”. Un'alimentazione lenta e una masticazione approfondita, quindi, potrebbero rientrare tra le raccomandazioni per la gestione del peso.

Perdere peso con gli alimenti a calorie negative

Esistono in natura alcuni alimenti che fanno consumare, durante la masticazione, più calorie di quelle che forniscono mangiandoli. Questi alimenti vengono definiti “a calorie negative” perché - come spiegano gli esperti di nutrizione - quando li consumiamo, la masticazione e il processo digestivo degli stessi porta a un maggiore dispendio energetico ("termogenesi indotta dalla dieta") rispetto alle calorie fornite dell’alimento stesso. Quindi, se inseriti all’interno di una dieta varia ed equilibrata, aiutano a perdere peso o a mantenerne un controllo nel tempo”. Tra i principali cibi a calorie negative ci sono: i cetrioli, i finocchi, i ravanelli, i funghi, la lattuga, le zucchine, il pompelmo, le mele e naturalmente l’acqua, alimento a calorie negative per eccellenza.

gennaio 17, 2022 0

 

Covid: come cambia il rischio di contagio se parlo, tossisco o starnutisco

Un modello matematico è in grado di stimare il rischio di infezione in funzione della distanza interpersonale, della temperatura e umidità dell'ambiente, e dei tipi di evento respiratorio (parlare, tossire o starnutire), con o senza mascherina

Le goccioline rilasciate mentre parliamo, tossiamo o starnutiamo, svolgono un ruolo fondamentale nella trasmissione di malattie respiratorie, come il SARS-CoV-2, da un individuo infetto a uno sano. Tra le misure di prevenzione anti-contagio c’è la raccomandazione, e in molti casi, l’obbligo, come prevede l’ultimo decreto anti-Covid, di indossare la mascherina Ffp2 o la chirurgica. Ma come cambia il rischio di contagio se la indossiamo o meno?

Secondo uno studio internazionale del Dipartimento di Ingegneria industriale dell’Università di Padova, svolto in collaborazione con la Technische Universität di Vienna, l’Ateneo di Udine e la svedese Chalmers University of Technology, e pubblicato sul Journal of the Royal Society Interface, è possibile quantificare il rischio di contagio in funzione della distanza interpersonale, della temperatura e umidità dell’ambiente, e del tipo di evento respiratorio (parlare, tossire, starnutire), con o senza mascherina. Partendo dalla Teoria di Wells, su cui si basano le attuali regole di distanziamento, i ricercatori hanno sviluppato un nuovo modello matematico in grado di calcolare la traiettoria che percorrono le goccioline espulse durante le attività respiratorie, e stimare come cambia il rischio di contagio respiratorio diretto.

La Teoria di Welles

Le regole di distanziamento, raccomandate da inizio pandemia per prevenire il contagio, si basano principalmente sullo studio proposto da Welles nel 1934, secondo cui il vettore del virus sono le goccioline di saliva emesse mentre respiriamo. Il team di ricerca coordinato dall’Università di Padova, ha revisionato tale teoria alla luce delle più recenti conoscenze sugli spray respiratori ed ha delineato un nuovo modello matematico capace di quantificare il rischio di contagio respiratorio diretto.

"La pandemia di Covid-19 ha evidenziato l'importanza di modellare accuratamente la trasmissione virale operata da goccioline salivari emesse da individui infetti durante eventi respiratori come parlare, tossire e starnutire. Nel nostro lavoro - ha dichiarato Francesco Picano, professore del Dipartimento di Ingegneria Industriale dell'Università di Padova - abbiamo revisionato le teorie esistenti utilizzando le più recenti conoscenze sugli spray respiratori arrivando a definire un nuovo modello per quantificare il rischio di contagio respiratorio diretto”.

La traiettoria delle goccioline salivari

Una volta emesse dalla bocca, le goccioline salivari vengono spinte dall'aria espirata verso l’esterno, evaporando, depositandosi o restando sospese. Mentre quelle più grandi e pesanti (ballistics droplets) - hanno spiegato i ricercatori - cadono prima di evaporare, mostrando un moto balistico (partono con una certa velocità iniziale ed un certo angolo e poi percorrono una traiettoria parabolica sotto l'azione della sola accelerazione di gravità), le più piccole evaporano prima di cadere e tendono ad essere trasportate dall’aria airborne droplets). A queste traiettorie, i ricercatori hanno applicato il nuovo modello matematico, da loro elaborato, per la stima del rischio di contagio in funzione di alcune variabili: distanza interpersonale, condizioni ambientali di temperatura e umidità, tipi di evento respiratorio considerato (parlare, tossire o starnutire), utilizzo o meno delle mascherine.

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Senza mascherina il rischio di contagio arriva fino a 7 metri

Dall’applicazione del modello matematico, è emerso che se si parla senza mascherina, in un ambiente particolarmente umido, le goccioline infette possono raggiungere oltre 1 metro, se si fa un colpo di tosse possono raggiungere fino a 3 metri, se si starnutisce fino a 7 metri. Se, invece si indossano le mascherine chirurgiche o Ffp2, il rischio di contagio diventa praticamente trascurabile sia che si parli, sia che si tossica sia che si starnutisca. Da questi risultati si deduce che non può esistere una distanza di sicurezza "universale” perché questa dipende dalle variabili: condizioni ambientali, carica virale e tipo di evento respiratorio.

Ad esempio, considerando un colpo di tosse (con media carica virale) si può avere un alto rischio di contagio entro i 2 metri in condizioni di umidità relativa media, mentre diventano 3 con alta umidità relativa, sempre senza mascherina. Considerando, invece, l'atto respiratorio più violento (lo starnuto), le goccioline possono raggiungere una distanza di quasi 7 metri. Se emesse parlando, le goccioline possono raggiungere una distanza leggermente superiore a 1 m.  “Nel complesso - hanno dichiarato i ricercatori - le nostre stime del modello indicano che le goccioline respiratorie possono raggiungere una distanza massima compresa tra 5 e 7 m quando si starnutisce, 3-4 m quando si tossisce e ≃1 m quando si parla”.

La mascherina abbatte il rischio di contagio

L'utilizzo della mascherina, soprattutto la Ffp2, si è dimostrata, come hanno confermato anche altri studi, un eccellente strumento di protezione abbattendo il rischio di contagio che diventa trascurabile già a brevi distanze (circa 1 mt), indipendentemente dalle condizioni ambientali o dall'evento respiratorio considerato. "Le indicazioni mediche che stiamo seguendo - ha detto Alfredo Soldati, ordinario di fluidodinamica dell'Università di Udine e direttore dell'Institute of Fluid Mechanics and Heat Transfer della Technische Universitat di Vienna - sono basate su studi di fluidodinamica del 1940. Stiamo chiudendo le scuole, limitando le capienze dei locali, limitando le distanze tra le persone sulla base di studi del 1940".

"È importante - ha aggiunto Soldati - che ingegneri e fisici si cimentino nello studio di questi fenomeni insieme a biologi e virologi per fornire indicazioni precise che consentano di rilassare le norme quando si può e di rinforzarle quando si deve. Dall'inizio della pandemia la comunità internazionale si è messa al lavoro e ha prodotto in soli due anni un bagaglio di conoscenze basate su sofisticati esperimenti e accurate simulazioni sui moderni supercomputer”.